ASSOCIAZIONE AMICI DI MARCELLO

La storia di Marcello


A Marcello Colombo, giovane autore di questa raccolta, il 10 gennaio 1996, pochi mesi prima del suo diciassettesimo compleanno, i medici avevano diagnosticato un linfoma, tra i più maligni. Per Marcello era allora cominciata
una lotta eroica: contro il tempo,
innanzi tutto, cui egli è riuscito a
sottrarre una stagione di eccezionale
creatività, e contro la malattia, che
sembrò,ad un certo punto, addirittura
sconfitta da cure lunghe e dolorose. Una
pesantissima chemioterapia, seguita
nel giugno 1996 da un autotrapianto
di midollo, rischioso e terribile: Marcello ne
uscì trasformato, certo, ma anche avido di vita.
Dalla fine del 1996 ai primi mesi del 1999 seppe sfruttare fino in fondo quella salute che aveva riconquistato grazie al suo coraggio, ai medici e all’aiuto dei suoi cari: terminò il liceo, si iscrisse all’università e soprattutto si mise a vivere, a conoscere, a scrivere. Non sapeva – o fingeva di ignorare, almeno con noi – che il male, anch’esso trasformato, lo aspettava inesorabile nel giugno del 1999. Anche la speranza di trovare un donatore compatibile per un nuovo trapianto sfumò, non senza averlo prima crudelmente illuso. Si fece allora un ultimo, disperato tentativo con un donatore non completamente compatibile. Della sua malattia Marcello non avrebbe voluto che si dicesse di più. È morto, a ventun anni, il 21 dicembre 2000.

PREFAZIONE AI RACCONTI

Chi leggerà i racconti di Marcello a libro finito si troverà necessariamente a confrontare le ultime prove, più mature e studiate, con i primi, brevi testi, che ancora rivelano una scrittura con qualche ingenuità adolescenziale e una minore autonomia narrativa. Ciò nonostante sono proprio questi primi lavori -da Implorando la mia musa a Dell’anima e dei suoi peccati- a organizzare un sistema assolutamente coerente e, per certi versi, originale di simboli e figure, che evidentemente hanno ossessionato a lungo l’immaginario di Marcello e che credo si sedimenteranno anche nel nostro. Molte metafore e altrettante similitudini ruotano attorno alle potenti immagini archetipiche della luce e del buio, che esprimono la lotta, sofferta in prima persona dal nostro giovane autore, di eros e thanatos, della vita e della morte; una lotta che spesso si conclude drammaticamente col trionfo dell’oscurità, “di quella seta di tenebre” che finisce con l’inghiottire anche il suo scrittore (“comincio a diventar nero”; “le tenebre ormai le ho dentro”; “non ho luce dentro di me”), che assiste, divenendone parte, all’esplosione “di una supernova che irradia tenebra ovunque sia possibile”.
Ma c’è un’altra immagine, più inaspettata e che ricorre tuttavia ossessivamente in questi racconti: quella della farfalla. La sua presenza è troppo insistita perché non sorgano domande sul suo significato profondo. Essa è innanzitutto -e dichiaratamente- proiezione, controfigura dell’Io scrivente: “volerò di fiore in fiore, di luce in luce come nera farfalla di tenebra”. Egli sente di essere “farfalla fatta di buio”, nata da quell’inferno “di vetro e cemento e tecnologia” nel quale non si stenta a riconoscere l’ospedale che lo ospitò giovanissimo (“Fu la prigione in cui nacque una farfalla nera”).
Ma la farfalla dei racconti di Marcello è, soprattutto, un simbolo ambivalente: essa può volare e dunque partecipare del cielo, della vita, della luce, ma essa è anche, sempre, tinta di nero, irrimediabilmente bordata dal buio, dalla notte, dal nulla che “brucia le ali a ogni nera farfalla”
Come dire che “il suo volo morbido e ondivago” ripropone, con forte suggestione visiva, l’eterna lotta tra vita e morte. E si rilegga allora il racconto intitolato, appunto, Farfalle, al quale Marcello ancora lavorava nel dicembre del 2000. Esso si conclude con una domanda: “Può una farfalla fuggire dalla tela del ragno?”. Sembrerebbe di dover rispondere negativamente, eppure, anche se solo a barlumi, è possibile intravedere una via di salvezza: essa può essere innanzitutto offerta dall’esperienza amorosa ( ) un’esperienza che tuttavia è talvolta dolorosamente sentita come finzione ( “Davvero non l’avevate mai visto – Nessuno sapeva l’anima nera”). Ma sono soprattutto l’arte, la poesia, la scrittura a rappresentare lo scampo: è dalle Muse che bisogna implorare la salvezza, come suggerisce il secondo racconto. E tuttavia nei confronti della poesia Marcello sentiva dolorosamente una certa inadeguatezza. Si presentava perciò come “poeta che doveva conquistare la sua musa”, anzi come “poeta senza musa” e lamentava. “vorrei essere poeta che faccia volare altri, purtroppo le uniche ali le ho nella mia mente”. Eppure Marcello sapeva che era proprio nei suoi scritti che la sua terribile esperienza personale poteva restare e parlare agli altri, ai quali sperava di lasciare “ un po’ di questo cuore e strappare un’emozione”.
Anzi, proprio la malattia, la morte, il nulla che l’avevano aggredito sarebbero diventate ( magari nelle forme più mature e oggettive di Ossessione o Martino) materia del suo canto: “tingerò ogni mia strofa della nera tenebra che risiede in fondo al mio animo” e “rimarrò forse nei tempi come il cantore del nulla”. E cominciando a percorrere a piccoli passi la strada faticosa dell’arte Marcello ha davvero dimostrato che “l’anima di un uomo è più grande di ogni morte”.

ABBOZZO DI UN ROMANZO

Nel 1998 Marcello parlò spesso agli amici di un romanzo, che intendeva scrivere: un romanzo sugli angeli. Riteniamo che le pagine seguenti, trovate in uno dei suoi quaderni, ne costituiscano l’abbozzo, la prima idea.

ARTICOLI E SAGGI

Nell’autunno del 1998, dopo l’esame di maturità scientifica, Marcello si iscrisse alla Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Torino e, contemporaneamente, avviò una collaborazione giornalistica con La Provincia di Como. Alcuni articoli furono pubblicati xxx; altri rimasero nel cassetto; altri ancora furono pensati per una diversa destinazione e mai terminati. Noi li abbiamo raccolti qui, facendoli seguire da un saggio (su Kubrick, una delle sue passioni!) che Marcello scrisse a quattro mani con l’amico Fabrizio Stoppa e che presentò all’esame di semiotica sostenuto con il professor Caprettini

RACCONTI

Tutti i testi raccolti in questa sezione (brevi prose liriche, pensieri, racconti) furono scritti da Marcello tra il 1997 e il 1998: di alcuni Marcello regalò agli amici l’unica copia manoscritta; di altri esistono differenti redazioni; alcuni furono pubblicati sul giornalino di istituto del Liceo Marie Curie di Meda; altri sono stati corretti recentemente, tra il 1999 e il 2000.
Noi abbiamo cercato di disporli in un ordine approssimativamente cronologico: i primi sono i testi che Marcello scrisse a partire dal 1997 e sui quali, in seguito, non intervenne più; gli ultimi sono racconti che, pur potendo risalire anch’essi a quegli anni, furono rivisti e corretti, come testimoniano la forma più matura, il respiro narrativo più ampio, il carattere meno frammentario. Di ogni testo abbiamo sempre scelto, qualora fosse possibile, l’ultima redazione: fa eccezione Il mare d’inverno, che abbiamo voluto presentare, all’inizio e alla fine della raccolta, nella prima e nell’ultima stesura perché testimoniasse dolorosamente il percorso esistenziale del suo giovane autore.

“Quello che mi manca ...”(Il mare d’inverno)

Settembre 1998

“…quello che mi manca oggi è il mare d’inverno”: mi viene una lacrima mentre ci penso spiando il flusso incessante fuori della mia finestra in questa stanza sigillata. Osservando oltre il muro di vetro che mi divide da chiunque ricordo cosa sia l’odore dell’aria di Milano, quel misto di smog e sudore che assaporerei volentieri. Mi resta poco di queste antiche sensazioni, ché già comincio a dimenticare persino come sia dolce farsi sfiorare la pelle da mani amorevoli.
Io ora sono qui. Un 3x3 dai muri di plastica, aria assolutamente filtrata che profuma di niente, solo coi miei desideri in una prigione che chiude gli altri fuori; secondino un infermiere di cui riconosco solo gli occhi. Riposo in attesa di tornare ad assaporare il mondo. In realtà non riposo niente: c’è chi mi tortura nel corpo e io mi torturo mente e cuore chiedendo se davvero serva a qualcosa. La risposta ancora manca.

Implorando la mia musa

Vedere una donna. Lei era quella tanto amata. Tutti possono sbagliare. Aveva voluto riprovare. Provare ad amarla di nuovo. Nulla sarebbe stato più lo stesso. Solo sapeva che questa volta non poteva sbagliare. Mai più.
Voleva darle tutto se stesso e chiedeva in cambio solo un pò d’amore.
Solo un bacio, che ti prende le gambe.
Uno sguardo per far attorcigliare lo stomaco di passione. Non voleva vedere piangere la sua principessa. Mai più.
Sarebbe rimasto lì a guardare quel sorriso per un’eternità lunga un battito d’ali. Voleva urlare perché lo sentissero la luna col sole.
Urlare l’amore.
Essere come il giorno e la notte a guardarsi per sempre da sempre in un gioco d’amore che li lasciava baciare solo nelle albe d’argento e negli occidenti di fuoco.
Rischiare di perdere la felicità l’aveva fatto impazzire. Ora era pazzo di lei. Voleva vivere ancora ogni giorno di nuovo. Cominciare da capo.
Era difficile come i fiori che crescono sulle scogliere. Così unici e forti. Ne puoi leggere il coraggio mentre il vento li scuote. E cercava ogni attimo parole nuove per dire ciò che nessuno può.
Chiedeva di cantare un momento che ogni poeta aveva provato a cantare. Mai ci riuscì: era solo un poeta che doveva conquistare la sua musa. Di nuovo.
Ma una musa non vuole fiori e regali, le bastano sguardi d’amore e carezze sul cuore.un cuore che già troppo ha sofferto colpe non sue. Solo non si era accorto cosa aveva da perdere. Era ormai troppo tardi? Poteva amarlo di nuovo.
Ma di nuovo, anche se avrebbe potuto combattere il mondo senza fatica era impotente ai suoi piedi, senza la corazza di illusioni e certezze che indossava per uscire. Implorava perdono.
Chiedeva di tornare a sognare, a fare di nuovo incubi meravigliosi che mai più erano stati senza di lei.
Ogni cosa poteva cambiare ma mai si può cambiare il cuore.
Mai si può essere perdonati per aver smesso d’amare.
E ancora prima di dormire si chiedeva cosa poteva fare. Forse sparire?

Bagliori riflessi su una luna d'argento

Era una note della fine di un’estate di amarezza e solitudine.
Anche le stelle erano ribelli e non brillavano a illuminargli il cuore.
Solo una gli era accanto per rischiarargli la vita.
Solo lei gli faceva scorrere la felicità dentro le vene, riusciva ogni volta a ridargli la voglia di vivere un giorno ancora. La prima volta l’aveva lasciato a sognare con un sorriso che aveva strappato il velo di nebbia con cui si circondava.
E c’era solo una luna d’argento come quel sorriso ingenuo e mortale, persa su un nero lenzuolo. Lui era parte di quella seta di tenebre con cui circondava il suo mondo. Era l’oscurità che gettava su chi lo conosceva per strapare fuori l’anima tetra che ognuno ha dentro. Ogni dove e ogni quando erano stati nelle sue ricerche.
Solo una volta aveva pescato nel cuore di una principessa.
Aveva scoperto la purezza e si era innamorato di quella candida luce. In lei non c’era quell’arcano mistero fatto di paura che lo alimentava. E se n’era innamorato.
Era il momento di riposare per la farfalla di tenebra e quel fiore di luce di stelle era l’unico luogo su cui andare. Neppure la luna d’argento ha in sé quel bagliore.
Un bagliore che è di ingenua bontà e stupenda purezza. E se n’era innamorato.
E la farfalla ogni giorno voleva prender luce da quel fiore perché gli mancava persino il bagliore che ha la luna d’argento. Un giorno di una notte di fine estate la farfalla fatta di buio comincerà a colorarsi.

Rock (in concerto)

Vivi settimane e mesi e attimi accumulando rabbia contro tutti e nessuno, perché non la puoi raccontare neppure in chiesa.
Poi insieme ad altra gente, che siamo milioni o decine, ti ritrovi in piedi gomito a gomito come soldati pronti per la battaglia. E tutti guardiamo nello stesso punto cercando un volto o una chitarra.
Aspettano tutti che la luce dei fari si punti sopra quelle travi di legno che saran la base per sognare e dimenticare.
Comincia una stridore di metallo da delle montagne come amplificatori; subito lo perdi perché ognuno comincia a farsi sentire: ogni spettatore vorrebbe essere il protagonista.
Ad un tratto spuntano, degli uomini come fossero dei, spezzando il fiato di bambine e cattivi ragazzi.
Tutto diventa uno, un’onda mossa da un milione di note. Si può annusare l’adrenalina tra uhn salto e l’altro.
Odio e violenza si strappano dai corpi tra una rullata e un reef in un turbinare di corpi e movimenti veloci.
E tutto si spegne, ci aggredisce la calma negli arpeggi di una ballata. I suoni giusti per sussurrare dolci parole alla donna che hai trascinato in quel vortice di pazzia e rumore.
Ogni secondo di quelle battute scolpito nei cuori e nelle menti.
In ogni pausa un’altra nera farfalla comincia a volare.

Riflessioni da una piazza

Solo. Di fronte a un mondo in cui incontri tutti ma solo una volta in vita. Sempre diversi siamo noi come diversi è chi sta nel crogiuolo di popoli sulla piazza di una grande città.
È vero ogni momento in questa vita di falsi.
Siamo solo ricordi e speranza, e sogni infranti svaniscono dentro impossibili realtà vere come il sole che scotta sulla faccia.
E nulla è come in quell’incubo stupendo che ognuno va cercando.
Ogni speranza è vana. E la nostra fantasia; solo lei ci può salvare per rifugiarci in un mondo di infinito stupore.
Forse non è solo il poeta senza musa perché ognuno cerca un senso e una vita. Come queste parole scorre troppo veloce per lasciarci realizzare gli attimi che cerchiamo. Come queste righe è zeppa ma manca di un filo a legare frasi che sembran momenti di realtà.
Cercherò nella realtà la mia fantasia: volerò di fiore in fiore, di luce in luce come nera farfalla di tenebre verso la felicità.
Ma non è un luogo che si può raggiungere bensì sarà il mio palazzo di vetro da costruire coi cocci che raccolgo sparsi sulle strade del mondo.
Forse aspetto solo qualcuno per accompagnarmi.

Mai la stessa

In fretta quanto al gente può cambiare.
Passano anni o istanti solo pochi se ne accorgono e ogni evoluzione si perde nelle spire di un luogo col nome di tempo.
La gente cambia come se fosse scritto nelle stelle, trasformata da eventi e dalla gente. Ogni volta si simula quello che non s’è.
Forse solo come si vorrebbe essere o si è stati su un altro tempo.
Ogni cambio è un salto, otre un dirupo, ogni giorno in volo sopra l’abisso che dorme tra un modo di essere e un altro.
Un pugno al viso imperturbabile del mondo che scorre nel tempo. Non si interessa a noi e ci vuole solo pedine tutte uguali a marionette da far ballare in schemi già visti su scene provate alla noia.
Solo pochi vedono ciò che cambia: negli occhi di una donna sconvolta da odio e amore, nel cuore di un ragazzo strappato da illusioni e dai suoi incubi più belli.
Eppure il mondo continua il suo macabro gioco e ci trattiene in questa realtà che brucia le ali a ogni nera farfalla che vorrebbe tornare al suo fiore a prender nuova luce e riposarsi nel profumo di petali di stella.
Ogni giorno qualcuno ripensa a ciò che perde ma si dimentica di quello che trova cercando quel fiore.

“Il giorno in cui smetti di cambiare è quello in cui muori”
Scott Lobdell (tra le labbra di Wolverine)

(Martino riflette) - Le porte dell’Inferno

Entrare solo per sperare che non sia vero. Che sia soltanto un incubo, comunque nei tuoi incubi ci sarà sempre,se uscirai.
È bastato un attimo per crollare in quell’abisso. Un baratro di disperazione e dispersione. Quanto profondo non lo so, forse troppo per risalire.
Solo mura di vetro e cemento e tecnologia abbastanza solide da confinare anche la mente più libera. Fu la prigione di una farfalla nera. Fu la prigione in cui nacque una farfalla nera.
Non esistono parole e nomi, per descrivere un oblio.
Giorni che passano come anni, quando esci sei già vecchio come la storia e aspetti di finire.
Nessuna tortura che un corpo può subire spero gli somigli. Sentirsi impotente, seduto su un letto aspetto di essere divorato dal male che io stesso ho creato o dalla cura che il mondo sta cercando.
Ma non è questo che ti rende la mente più scura dell’ebano e il cuore più fragile di un cristallo.
Restar solo, mentre il neon ti rende sempre più bianco, vedere il corpo soffrire.
E sembri una foglia d’autunno sempre più marcio e più secco: quasi fuggito dal brutto ricordo di un olocausto, stavolta non c’è nessuno da condannare.
Non si può soffrire di nuovo, ormai persino le lacrime se ne sono andate. Si può solo impazzire guardando uno squarcio di azzurro fumoso oltre una finestra che sistema tra me e il mondo un milione di distanze.
Allora comincio a diventar nero, comincia a morire una parte della persona che non sei.
La solitudine può farti scoprire il vero volto che hai, l’animo che nessuno vuole conoscere.
E se un giorno ti capita di uscire da quell’inferno è solo per buttarsi in questo mondo a farti distruggere.
E allora tutto quello che era dentro è pronto a uscire, esplode una supernova che irradia tenebra ovunque sia possibile.
Finché si soffochino le preghiere e i pianti. Chi comanda questo incubo stupendo sarà sazio solo con l’oscurità che c’è di dentro.

Ali d’amore e d’inchiostro

Gli angeli volano di magia e di gioia, non hanno legami su questa terra di morti e orrori.
Come si potrebbe toglier le ali a un angelo.
Chi non ha mai desiderato di essere come loro, ed essere angeli che fuggono da queste case di pietra e come spiriti per volare tra nuvole cariche di tempesta a respirare la nebbia e la violenza del tuono.
Eppure non riesco a volare, non ho ali, che sian di candide piume o di nero metallo affilato per strapparmi alla terra e librarmi tra stelle e baleni.
Cosa blocca il mio balzo per andare in cielo?
Ma gli angeli non hanno corpo e non han passioni: son solo anima e bontà. Mi mance ancora la bontà,né mai la cercherò nel soldo per i poveri o nella preghiera della sera.
Non c’è Dio né superstizione che può dirmi se son giusto.
Credo solo potrei essere un demone di fuoco e male: anch’egli può volare. Forse c’ho provato troppe volte, ma ancor qualcosa mi è mancato. Di fronte al male ho ceduto e un pezzo di me è rimasto alle tenebre e le tenebre ormai le ho dentro.
Ma né angelo né diavolo sono puri in me, e ancora sto cercando quel che sono.
In fondo poi non sono neanche uomo perché mi manca la coscienza che avete, ho perso la paura di morire in un letto d’ospedale, non mi posso mai adeguare. Come posso essere vero se non ritrovo mai niente uguale?
Forse posso anche sbagliarmi: son come tutti ma non ci voglio credere.
Voglio ancora credere di essere Io senza schemi dove pormi, vorrei essere poeta che faccia volare altri, purtroppo la uniche ali le ho nella mia mente. Fan fatica a tenermi in aria poco sopra una massa informe di tutto.
Ma ancora riesco a sorreggere qualcuno.
Per la mia anima chiedo in cambio solo un po' d’amore. Per volare ho bisogno di ciò che si nega a un angelo od a un diavolo, ciò che l’uomo ha solo in parte. Forse tu puoi darmelo.

Considerazioni sulla mia arte e sul mondo

Esce spontaneo dal profondo dei recessi della mia mente, ove stipo gli inutili pensieri di ogni giornata tale zibaldone.
Non si trova nei miei passi alcunché valga la pena essere letto infatti quando metto a immagini l’inchiostro ho gia trovato nella mia o nell’altrui testa quel che voglio.
Da ogni riga non si potrà estrarre né saggezza né beltà che alcun critico metterà sui libri. Mancano della maestà di Omero e Asimov, della pienezza dantesca o di abissali profondità amletiche. Solo spero di lasciarci un pò di questo cuore e strappare un’emozione a chi capiti questo che ho la pretesa di chiamar libraccio. Forse il tempo mi porterà dei fleurs du mal o la poetica del gran Montale.
Mi ossessiona l’assenza di vita in ogni istante d’esistenza quanto la morte. Da ciò son spinto a eternare visioni or tempi or voglia di tale oscura realtà, che un giorno io sfuggia all’oblio di tanti e più secoli.
E rimarrò forse nei tempi come il cantore di nulla, un poeta senza musa.
Tingerò ogni mia strofa della nera tenebra che risiede in fondo al mio animo, solo non credo che alcuna notte sarà abbastanza scura né alcun incubo così tetro da sembrar così impenetrabile. Potran esserlo lo parole.

Breve

Gli angeli volano di magia e di gioia, non hanno legami su questa terra di morti e orrori.
Parole, non voglio soltanto lasciare parole.
Spero che rimanga dell’altro. Cerco di infondere a questi fogli una scintilla di vita, per sentirmi dio, e un soffio d’amore, per sentirmi uomo.
Cerco in me la forza che porti soltanto alla grandezza interiore ed esteriore. Non voglio insegnare a nessuno, non cerco spiegazioni al mondo, non giustifico il bene: l’arte è per l’arte, consegno la bellezza di un istante di genio all’eternità del mito.
Non esiste niente che duri per sempre, solo la nostra mente può eternare. I sentimenti non furon che istanti rimasti più a lungo nell’animo.
Nelle parole non possono entrare i sentimenti ma posson essere scintille che incendino gli spiriti.

Supernova

Vedo, seduto a terra, fuori dalla finestra un cielo di ferro trafitto di lacrime: il mondo pericoloso e finito dei prossimi cent’anni cyberpunk.
Il colore sopra di noi si mescola col grigio di palazzi in vetro, cemento sopra cemento come il marmo sui morti.
Non ci lascia la speranza di nuovi raggi di sole.
Aspetto l’arrivo del gelido generale che stronchi al vita.
È meglio tenersi stretti la luca di dentro per i tempi bui. Non bisogna essere coinvolti nel tetro mondo. Viviamo per essere diversi, viviamo e siamo felici della vita. Non ho luce entro di me ma un buio più forte della notte più cupa. Per questo mi circondo della luce di chi è intorno a me.
E un giorno dalla mia stanza fatta di vanità e solitudine ho visto entrare una luce forte di una stella che muore per far nascere una galassia. Guardando quel cielo con occhio nuovo ho visto una nuova forza. Sconosciuta e imponente mi ha colpito, ho visto distrutto il mio egotico castello.
Purtroppo la luce aveva fatto svanire la mia illusione.
E mi vidi così com’ero, e non mi riconobbi. La luce affondava in me come in un pozzo senza fine.

Vita Nuova

Non trovo mai modo di essere senza chi amo. Non soltanto perché ho bisogno di amare te, ma soprattutto perché devo essere amato. Non sono niente senza chi mi ama, come un dio senza chi lo adora non ho a chi prestare attenzione.
Sei la mia anima, che mi fa vivere.
Ricordo una volta che non avevo amato ancora: non soffrivo, non piangevo più, nessuna notte insonne né paura di sbagliare.
Eppure solo oggi noto ch’era non vivere. Una vita che passavo come quella che oggi non sopporto.
Stavo con me, pieno di autostima senza lasciar le emozioni a briglia sciolta: sempre inscatolato in macchinosi artifici di perfezione. Ero come un castello di sabbia, sulla riva pronto a sparire nelle tue onde. Come acqua hai sciolto ogni finzione, le sensazioni nascoste nell’antro più buio han rotto le loro catene.
Sotto le macerie di quell’opera di bambini era celato uno stupendo prezioso che stai levigando ogni giorno. Sempre più lucente diventa l’amore che cullo dentro di me. La gemma più bella fatta per essere guardata e vissuta.
Una nera perla nascosta nelle profondità del cielo si nutre del fuoco delle stelle e diventa perfetta ed eterna.

Pensieri di una triste giornata

Maggio '97

Troppe volte ho visto il cielo sopra la nostra testa tornare turchese dopo essersi colorato di piombo, le cime dei pioppi straziate dal vento di tempesta come l’anima mia divorata dall’ultima antica passione.
Oggi sono costretto tra mura di cemento e ferro e vetro mentre i miei pensieri son tornati a volare tra altri scogli di cemento e ferro e vetro e indifferenza cercando di ricordare il calore della pelle, il profumo dei capelli, la dolcezza delle labbra, ma sopra tutto la profondità infinità degli occhi di caldo ghiaccio del mio angelo biondo che ha risvegliato nel mio cuore indurito dal male e dal dolore un sentimento che ha trasformato l’ennesimo figlio del Diavolo nel poeta che troppi di questi fogli ha già riempito coi versi del suo patire.
E questo scritto senza lettore vuole sfogarmi contro la vita che oltre al dolore ci fa sopportare l’amore per qualcuno forse lontano dal nostro cuore.

Nel nulla

Senz’anima, senza vento. Non posso più volare come se il confine dell’isola della mia mente si fosse chiuso per stringermi nel mio piccolo mondo di merda.
Sono il poeta senza la sua musa che gioisce di parole senza un senso.
Solo ora trovo un momento per scrivere un dolore. È il dolore di chi è impotente. Perché chiunque muore e non c’è mai un motivo.
Ogni momento era sbagliato per morire.
È  sempre l’attimo giusto da vivere. Che tu sia nato da un giorno o abbia già visto tutto.
E sempre così.
Ma forse siamo solo un’onda nel mare infinito della realtà possibile. Avremmo potuto non esserci. Ma dobbiamo morire. Se è vero quanto scrivo qualcosa deve essere per sempre. La vita è solo un attimo, il nulla è per sempre.
Nel nulla mi ritrovo quasi un punto d’ombra nel fascio di luce. Una lacrima può avere più vita di un uomo. Spero che le mie durino per sempre.
Chiunque se ne vada dovrebbe restare.
Qualcuno ha detto che le cose bruciano, le persone muoiono, ma il vero amore dura per sempre.
Nulla è per sempre.
Ho amato, ho vissuto, la morte non mi ha preso, ma un giorno sarò il nulla.
Anche se ciò che faccio non ha senso io sarò il poeta senza musa e voglio essere nel nulla.

Un attimo per sempre

Pensavano di vivere per sempre. Si sentivano un metro sopra la gente. Solo perché avevano annusato l’ambrosia in una frenesia fugace.
Era forse l’amore a giocare col suo corpo. Nessuno lo saprà se non avrà una palla di vetro per vedere tra le rabbie e le fantasie il futuro di due ragazzi nei loro attimi. Qualcosa stava accadendo.
Una stantia tra tante destinata a finire tra tante. Forse. Perché si sa: gli amori più dolci muoiono mentre nascono, come una farfalla di tenebra che viva un battito d’ali.
Il loro poteva essere un attimo felice della triste vita di un solo universo. Poteva. Doveva.
Volevano crederci quando lo pensarono ma scelsero le righe di Orazio per gioire dei propri corpi.
Mentre il tempo gli scivolava dalle mani nella sabbia di granelli infiniti sentirono vibrare spiriti in sintonia, ascoltarono una nuova voce del cuore, sognarono come solo i bambini possono fare.
Se l’amore non esiste tutto questo non è che un mio stupendo incubo.

Ultimo nuovo canto

Addio. Quale sciocchezza. Un giorno poi lo stesso ci si rivede. Senza volerlo, senza saperlo.
Ma lei sembrava convinta che in fondo non poteva essere che il loro più bel incubo. Non poteva essere. Solo ieri avrebbero detto di amarsi. Domani però saranno si strade diverse, vivranno nuovi amori fuori, da soli.
Erano fatti per stare insieme. Forse così sarà. Forse.
Ma lui non era per nessuno. Solo la facciata per la mamma, un fondo di malizia per conquistare, la perfezione studiata sotto ogni senso.
Davvero non l’avevate mai visto.
Nessuno sapeva l’anima nera, come di una farfalla di tenebra eterna era nata contro il mondo.
Era risorto come un bruco dalla crisalide. Si era creato l’eroe e il mito che la ragazza non avrebbe dimenticato senza averlo conosciuto.
Era stato un attimo. Un volo di poesia tra le ali del desiderio e del piacere. Era la vita che avrebbero vissuto, che avrebbero voluto.
Era solo un incubo stupendo di poeta senza musa.
Senza un senso, quasi un gioco, era nato. Per cambiare. Doveva finire senza protagonisti. Per perdersi nelle spire del tempo. Come ombra nella luce.

Luna rosso sangue

Era una sera di luna che colorava il mare come una macchia di morte su un cristallo di lucido nero. La sera più corta.
Era una notte di due vite normali che si mescolarono per segnarsi. Forse.
Lui rubò il riso di fanciulla dalle sue labbra per ricordare il bambino che aveva dentro.
Lei si prese tutta la vita che ancora non aveva vissuto per assaporare dolori non suoi e gioie altrui.
I loro baci salati e nascosti, come di un gioco proibito, vibravano nell’incanto di due anime che avevano navigato ai bordi del cielo dove c’è solo la luce. O solo il buio.
Si erano trovati senza sapere di cercarsi per dirsi quanto fosse forte l’amore.
Ma l’amore li aveva assegnati ad altri luoghi e ad altra gente.
Furono come la luna ed il sole, fatti per incontrarsi un solo attimo della giornata.
Una giornata lunga una vita.
Mi chiedo se allora non avrebbero chiesto di vivere un milione di giorni.

Dell’anima e dei suoi peccati (di un amico)

Il mare si era mescolato di bianca spuma come se volesse ribollire della rabbia celata nei suoi abissi.
Il mare era nella sua anima come la tempesta di fuori desideroso di inghiottire tra le onde del suo spirito nero qualsiasi buon segno incontrasse sul suo cammino.
La stessa tristezza era cresciuta sul terreno di solitudine e malinconia, per fare fiori d’ira.
Tra le note delle sue canzoni erano sbocciati il dissenso e la paura. Era alla deriva nell’oceano che ah dentro. Forse aspetta che qualcuno gli tenda una mano?
No, vuole sentirsi se stesso nel rifiutare l’aiuto di chi si è già salvato.
È come il mare che la sera si calma e lascia a riva i coccio della sua collera. Perché il tempo ha saputo levigare le montagne, così si sbricioleranno i picchi più aguzzi. Nonostante tutto la montagna resta grande.
L’anima di un uomo è più grande di ogni morte.

Senza titolo (racconto)

16-10-98

Si rese conto che la giornata era arrivata già da tempo solo perché il caldo d’un pallido sole di metà autunno gli illuminò una metà del volto. Passando tra gli spioventi dei tetti si allungava in un vicolo sporco che più che a Milano sembrava la NY di un film anni ’80. Come se la luce potesse svegliarlo la mattina dopo un brutto sogno. O forse purificarlo. Non mangiava da così tanto tempo che i crampi erano come una lama avvelenata che strappava la parete dello stomaco. Mescolati a una nausea malata che lo scuoteva aritmicamente. Si infilò una compressa avorio sotto la lingua e attese che il suo effetto pervadesse tutto il corpo. Una moderna alchimia che gli avrebbe permesso di rimanere in piedi (= di tenersi in equilibrio) per qualche altra ora. Uno spruzzo della poca acqua rimasta vorrebbe eliminare l’acido e il metallo che gli riempia la bocca.
Sperando di non doverla vomitare.
Tirarsi in piedi non dovrebbe essere certo difficile, ma la gravità spinge lo scarso sangue del suo corpo tutto nelle gambe. La spazzatura del vicolo gira tutto intorno a lui mentre appaiono machie di colore davanti ai suoi occhi, come i fuochi i S. Elmo.
Pochi secondi in cui il cervello va in apnea prima di ricominciare a ragionare.
Raccoglie l’acqua e toglie gli occhiali scuri dal piccolo zaino verde militare, scrigno di tutti i suoi averi in questi strani tempi.

25-11-98

la strada da quel limbo ai fragori della città è un infinito istante Milano lo accoglie con tutta la prepotenza della sua civiltà di gas e palazzi. Respira a fondo come se i suoi polmoni di animale metropolitano soffrissero senza la normale saturazione di veleni nell’aria.
Si muove silenzioso tra la gente come un anonimo universitario che non si rade da qualche giorno. Il volto pallido sul corpo troppo asciutto non spaventerebbe certo se sotto ai capelli neri e scomposti non creasse il contrasto di una stella sullo scuro sfondo del cielo.

Bianca

20 gennaio ‘999

Mi torna in mente quasi per caso, viaggiando su un treno di Chissaquando diretto a Chissadove ‘ché ci sono 4 guys inglesi di Londra che chiacchierano coi loro zaini, carichi d’una vita e solo di questa strana vacanza persa nelle vie della nostra Europa. Mi ritorna una ragazza incontrata nell’ultimo viaggio in una Spagna che aveva solo il sole d’una fiesta hemingwaiana.
Una giovane di quella contrada pacifica ch’è il Belgio e io e lei passavamo una sera via l’altra slangando in un esperanto solo nostro, che in fondo avremmo potuto parlare solo inglese. Ma io infilavo tra un hallo e un bye il retaggio del mio quarto spagnolo e di quello francofono e lei dietro ci metteva la scuola di lingue mixando con tranquillità tre quarti della UE seguiti a ruota da un’aggiunta del caro italiano che era svelta a imparare da me. E poi quelle notti si allungavano di sangria e di un liquore di pesca che imparavo a conoscere e che oggi confondo al suo profumo, e noi ci si trascinava su per le scale in 2 balconi adiacenti in uno squallido albergo.
Eravamo separati da un muro di vetrocemento, riuniti sotto una stellata del Chissadove in costa brava. E io lentamente affondavo nel mellifluo di quel misto di suoni raccolti dal caso attraverso un’Europa quasi unita. E scemare portato per mano dal vapore dell’alcol con fondevo reale e onirico.
E poi rotto di un sonno di troppe poche ore salivo a una piscina su un tetto mescolando il sole di una tarda mattina ai suoi discorsi, ai suoi sguardi. Finché dolce il sonno non tornava a cercarmi imponendomi l’abbandono circondato dal sound dei Timoria diffuso solo per me dal walkman fidato, indegno sostituto di quella voce d’altri luoghi.
Ma andare a conoscerla fu di certo la parte difficile della storia. Spinto com’ero dai drughi, amici ma non troppo, fiduciosi della mia polifonia per organizzare un party di vini e chitarre sulla spiaggia ghiaiosa di quel Chissadove in costa brava.
Le gambe tremavano a quel ganjo ch’ero io di qualche tempo fa. Ma in fondo ero fiducioso anch’io di quel parlare vario e un po' anche di quella chioma modello lizard king da giovane e dei miei sunglasses a rettangolo, che facevano un po' strano e misterioso.
Sfoderai allora uno di quei sorrisi falsi, tant’era la fifa che c’era dietro. Che in fondo a rifarlo oggi ce l’avrei ancora. Però navigavo, ganjo, per le sdraio della piccola piscina sul tetto tenendo sempre in vista la ventina di denti necessari fino a un’isola imprecisata dove non ero troppo sicuro di voler arrivare. E il viaggio fu intriso di pericoli che chiunque sia stato un ganjo addestrato a fingersi sicuro e fermo in faccia a tutti i drughi può comprendere: ‘ché ti accorgi quanto la Natura (lo diceva il vecchio Leo) sia malvagia, che cerca di farti andare il piede in fallo mentre scavalchi una sdraio qua e eviti il bordovasca là, e ti vuole gambe all’aria a guadagnare le risa di drughi e dolci fanciulle. Che poi non è che fosse la donna della mia vita ma, si sa, ne va dell’ego d’un ganjo in piena adolescenza. Tardoadolescenza ne avrebbe detto il Brizzi. ‘ché poi, si sa, se fossi finito ruzzoloni i compagni drughi l’avrebbero contata a lungo tornati nel nostro Chissadove qui a Milano. Comunque non finii ruzzoloni, questo lo ricordo, anzi la dolce fanciulla che avrebbe presto preso nome Bianca aveva sollevato lo sguardo, distratta al sacro rito dell’abbronzatura, giacché quel drugo d’un tempo aveva preso ad avvicinarsi. Quasi quasi sorrideva verso di me ancora piccolo che ondeggiavo la chioma un po' alla jim ancora non troppo asciutta. In un ciao poco italiano giocato d’anticipo finì tutta la sicurezza che m’ero avanzato. Ma il ganjo teneva nascosto l’asso in un come va? recitato nel francese mezzo zoppo che ricordo ancora. E, poco ma sicuro, quel c’ero io benedì la nonna di Lione e i cari drughi che l’avevano condotto in quel Chissadove in costa brava, ‘ché Bianca aprì lei pure quel sorriso sicuro e falso per il tremore che taceva. ‘ché poi le dolci fanciulle non sono così strane, si sa ma solo poi, come un ganjo tardoadolescente può pensare. E allora l’io di ieri s’è lasciato ad un inglese bello fluido nei discorsi che si devon fare, ganji, con una Bianca venuta dal Belgio in quel Chissadove in Spagna. Che poi non mi ricordo troppo bene.
Però la sera stessa era tutto combinato il party con lei e la sue amiche e i drughi e io. Che poi non mi ricordo troppo bene neanche quello tutto mosso nelle chitarre e nei vini e nelle parole di lei cantate. È tutto un po' nebbia finché lei non mi invita via a ballare in quella discoteca che si andava senza zatteroni e maglia fluorescente e magari pieni d’alcol giusti da ondeggiare a ritmi funkyreggaehiphop senza finire a terra. Lì è tutto chiaro sui fianchi di lei negli shorts e fin su al top inesistente. Limpido come nel ganjo cresciuto, che poi ero io, lì davanti in classici oversize sotto la maglia che recita il vecchio Nietzsche -solo chi ha un caos dentro di sé può generare una stella che danza-. Che aveva da esser fiero Friedrich ‘ché il caos nelle emozioni c’era tutto e loro eran sicuro quello che può essere una stella che danza.
Che poi ci stavan così bene, il ganjo ch’ero io e Bianca, che han continuato a danzare fin nelle strade mezze vuote di una quasi mattina di un Chissadove in costa brava. E poi dopo una casta buonanotte a spiegare ai drughi, vecchi del mestiere, che s’era andati a ballare solo quando entrava con in faccia un sorriso che di falso non ha nulla. Se non che vorrebbe essere più grande. Il ganjo anziano ch’ero io.
Ma ora che i 4 guys son scesi al loro Chissadove mi sfugge tutto il resto. E mentre aspetto il Chissadove mio passano le ultime stazione uguali nella nebbia che non so più bene quanto e se ho distinto vero e sogno.

Marcello Colombo

Martino

marzo ‘999

È la metro ogni mattina, la folla, che scava il cuore della città. Ogni volta sempre la stessa e sempre gli stessi. I capelli oggi sono ancora bagnati della doccia, ieri sera Lei non voleva farlo tornare, e la testa sembra non funzionare. Manca poco prima che il tedioso professore e quella sedia scomoda lo riportino alla realtà. Può ancora lasciare la testa sognare mentre respira quest’aria stanca qualche metro sotto terra.
Per Martino è un altro giorno da universitario in corso, ma ancora per poco, in cui di certo non c’è nulla se non che non accade nulla. La mamma vuole che continui, ma ormai nella sua testa c’è spazio solo per Lei.
Lei è più grande, ma questo non li influenza particolarmente, e ormai lavora. S’è trasferita dalla provincia per andar via da papà, e qui abita sola. In questa grande città, fredda d’acciaio, è cresciuta in fretta ma ha trovato in Martino quel poco di infanzia che le mancava.
Ieri è stata una serata speciale: niente anniversari, non le piacciono. Soltanto, Martino è arrivato con una bottiglia del rosso che le piace e quel suo profumo che sa un po' di tabacco. Non si festeggia nulla, le ha detto Martino con la sua voce dolce di melodia, è solo che ti amo.
E così, da una sera come tante altre è nata una notte d’amore ubriaco. Erano già le quattro, forse, col sole che ancora non si alzava. Martino cerca di non svegliarla quando si alza, vuole andarsene lasciandosi alle spalle questa scena da film di Lei che dorme metà nuda metà coperta del lenzuolo chiaro e lui è il bello senz’anima che fugge da un male che ha dentro.
Ormai è arrivato alla sua fermata, ma non scende perché ha deciso di restare nel cuore della città.
…non ho più niente da lasciare solo un ricordo nella mente di Lei forse mi ha amato come sono senza chiedere come la mamma mi vuole tanto bene ma non può fare altro neanch’io posso far altro solo non saprà nessuno perché e sarò un altro dei giovani senza ideali che abbandonano la vita come si legge sui giornali. Ma la testa fa ancora male di ieri sera ma non voglio soffrire basta aghi per salvarmi che han  reso la vita un inferno col veleno che quel dottore m’ha spruzzato dentro "È per il tuo bene" così diceva ma tanto è inutile ed è meglio che me ne vado adesso che ancora posso e voglio voglio restare con Lei ma non posso e l’odore della pelle fresca e sudata stanotte che mi rimane nel naso e questo schifo di profumi troppo forti e fruttati e screziati della metro li sento oggi come non mai ne più li sentirò.
Martino scende e si ferma ad aspettare davanti ai binari. Ma, la vita è meschina e malvagia, Lei è lì e lo vede e sta arrivando veloce con una domanda già alle labbra, Martino non può restare a far crollare tutte le sue certezze e ritorna a scappare. Ma certo non ce la può fare. Se la sua mente è ancora quella limpida d’un tempo certo il suo corpo è corrotto dal male quanto dalla cura. E il sangue comincia a colargli dal naso, segnando quanto ormai debba fuggire per non farsi capire.
Quando Lei lo raggiunge Martino è già deciso a saltare, non voleva finire così però, e può soltanto lasciar scivolare una lacrima senza capire perché.
Solo saltando con lui si accorge che piange mentre si gira e la guarda, non doveva andare così, e Lei legge ti amo sulle sue labbra appena dischiuse.

Marcello Colombo

Parallelo incompiuto

18 marzo 98

Sono le 2.39 quando si sveglia. Anche questa notte di fantasmi lo ha lasciato infreddolito e sperduto. Da quando se n’è andata via ha scoperto quanto può essere terribile una stanza buia e solitaria. Lei è andata a….non lo sa proprio dove: solo all’aeroporto l’ha lasciato con un sorriso, un bacio. Poche parole. Ti scriverò, aveva detto. Non voleva rischiare che la seguisse. Non lo voleva tra i piedi più. Ma prima o poi sarebbe tornata, martino se l’è ripetuto ogni notte, più o meno a quest’ora, quando le paure sbucano da un inconscio saturo.
Poi la mattina c’è solo un lenzuolo sudato su di un letto disfatto.
Non posso più andare così, mentre si rade.
E ancora lo ripete scendendo le scale, quando la mamma gli parla e suonano perché non passa al semaforo verde.
Stamattina lo sa già che non ci arriva alla facoltà. L’amico T. lo aspetta a mezza strada carico d’illusioni miste a oppio per dimenticare tutto.
Sulla macchina verso il parco, “che tanto la mattina non ci rompono i ciglioni” dice il compare. Le sue mani sono esperte e non lo distrae il rock di Hallowenn quanto le buche della strada.
L’abitacolo si riempie dell’odore caldo e morbido della specialità olandese tra le mani del T. mentre il joint sembra arrotolarsi da solo.
La prima boccata spiega qualità e qualità della magia, la seconda e la terza fan sparire il cielo di piombo e i riflessi d’asfalto.il parco gli sembra una tavola di Van Googh dopo quel regalo.
Si muove ora lento e tranquillo sul sentiero di ghiaia che scricchiola sotto le scarpe.

La correzione
OSSESSIONE

“Non c’è nulla che vada bene, neppure stavolta”. È l’ennesimo che prova a rifare. E rifare, rifare, rifare. Il dottor S. ha già ricostruito quella storia quasi ogni giorno da quando la scrisse. Sembrava perfetta, una volta, arrivata veloce: non ci aveva messo neppure tre mesi per questo suo secondo romanzo. Il primo aveva avuto un discreto successo e l’aveva convinto a continuare. A riprovare. Gli sembrava impossibile uscire dalla monotonia della sua cattedra. Invece proprio essere l’autore di un libro che vende l’aveva liberato, aveva anche trovato quello pseudonimo anni ‘20.
Ma ora non è così perché questo proprio sembra non funzionare. L’ha riletto e corretto. Riletto e tagliato e aggiunto. Nuovo stile. Altro finale.
“No, niente da fare”. Ogni volta manca quella scintilla di cui ha bisogno.
Per oggi può anche smettere e andare a letto. La notte porta consiglio, avrebbe detto la sua povera nonna. L’unica cosa che trova di notte è un incubo che corre e corre dietro di lui. Vuole scappare via. Deve scappare. Cerca qualcosa, di arrivare a qualcosa. Ma non c’è nulla da fare. Il suo volto diviene una maschera di bianco spavento.
Sono le due e trentanove e rimane un lenzuolo sudato e un letto disfatto. La mattina non arriva presto per il dottor S. che proprio non può rischiare di tornare a dormire. L’incubo potrebbe raggiungerlo.
Finalmente la colazione, il traffico e la faccia consumata dell’università lo ricollegano alla monotonia che cercava stanotte. Ora l’anfiteatro dell’aula gremita per l’ennesima lezione lo fa protagonista per un pubblico disattento.
Ancora lo tormentano tutte le imprecisioni della sua opera. Lo ossessiona ora un verbo, ora un dialogo. Poi ripensandoci anche il titolo non è troppo intrigante. Sempre e più continua a ritoccare i ritocchi già fatti. Plasma ogni inezia. Ogni minuzia viene abbattuta.
Anche il suo piccolo sfogo egocentrico finisce, però e il rumore di clacson e motori lo riaccompagna fino a casa. Qui c’è solo, appeso alla porta un piccolo biglietto che lo attende:

Ciao dottore,
stasera c’è una festicciola a casa mia. Se non fai l’amore col tuo romanzo potresti venire.
Amelia

È la sua vicina. Un tipo carino. Si ricorda che le piace Baudelaire e il bianco frizzante. Magari stasera ne porterà una bottiglia. Non è certo la prima volta che lo invita ma stasera non dovrebbe proprio andarci, per risistemare il suo romanzo.
“In fondo non ne uscirebbe nulla comunque”. Si prepara per la serata mondana spazzolando il vestito di seta oltremare. Sotto la giacca una maglia sabbia segue il corpo asciutto. Scapigliato come sempre rimira nello specchio la posa. Un trentenne belloccio con quegli occhiali stretti, l’aria  intellettuale e altera.
L’uomo semplicemente celato dietro il titolo di Dottore in lettere o dietro uno pseudonimo anni ’20.
La festa leva qualche ora alla sua ossessione, un po' d’alcol gli impedisce di ricordare gli incubi di quella notte.
Ma non può dimenticare ogni giorno dopo la sua necessità di correggere. Odia se stesso incapace di migliorare il romanzo. Odia il romanzo incapace di migliorare se stesso.
Ma quando cala la sera di un altro giorno finalmente il romanzo è completo.
Sono solo pagine bianche che volano nel vento di una finestra aperta.

Marcello Colombo

Eros o Thanatos?

7 aprile ‘999

Lei era Angie, un nome da cartoni animati quasi per sottolineare i suoi tratti fantastici. Lei era la più bella della nostra scuola di provincia. Chiuso in quella scatola di cemento e cultura autoesclusasi dal mondo in movimento. Da un angolo, indifeso e trasparente, la guardavo passare, ogni tanto, e con me si voltava tutta la scuola. Avvolta nei jeans stretti e nella semplicità di trucchi leggeri, come presa dalla copertina di un giornale di moda ancheggiava appena all’uscita di scuola.
Forse era la mia mania idealista da adolescente che leggeva romanzi d’amore che la rendeva un fantasma di bellezza: stupenda fin quasi a spaventarmi Angie era l’irraggiungibile fine dell’arcobaleno. Gli attimi passati osservandola di scorcio sono stati almeno quanti i sogni che non potrei raccontare. Angie era come le ragazze pon-pon nei telefilm americani, quelle che finiscono sempre insieme al tipo coi muscoli, e il cervello, di un grizzly. Per me diventava la musa dei canti di troppi poeti: un amore fatto del mio ammirarla.
Una volta, o forse due, ci parlai anche. Ne eran passati di giorni e di ore da quando l’avevo vista, folgorante, la prima volta. E abbiamo parlato, bevuto e scherzato in un angolo di divano tra amici comuni che non sapevamo d’avere. E lei era sempre più simile a come l’avevo immaginata, a come doveva essere. Esserle seduto accanto, nella mia testa, rendeva ancora più evidente l’inferiorità. E ancora per molto mi era rimasta l’idea di lei. Creatura fantastica dei libri d’avventura.
Poi un giorno mi son svegliato che tutti eran già più grandi, io vedevo tutto carico di ombre differenti. E ora rivedo lei e la sua luce è cambiata, quello sguardo di stupenda indifferenza ha lasciato spazio a una lacrima su una guancia rossa. Di nuovo, tutti si voltano con me per osservarla.

In fuga

29 settembre ‘999

Diana scende dall’aereo tra i fumi e i passeggeri in movimenti tortuosi e discronici. La città, ancora in volo era un ammasso di stelle precipitate: non fumatori, vicino al finestrino che voglio vederla risplendere, aveva detto prenotando.
Ora, avvolta nel cappotto lungo di lana scura si trascina la valigia, e rischia di inciampare nelle stringhe lunghe e slacciate che abbelliscono gli anfibi.
Ormai la casa è lontana, anche se casa non l’ha mai creduta, e non ci può tornare. Ha abbandonato tutto e tutti per seguire un sogno. Di certo non avrebbe abbandonato un sogno solo per lui. Perché lui non le ha mai chiesto di restare in quella soporifera provincia milanese. Non l’ha mai chiesto, forse avrebbe voluto o dovuto. Ma un giorno ci tornerà, da lui, per dirgli che ne è valsa la pena. Ma soprattutto vuole dirgli che l’ama come non l’ha mai fatto.
Ma è stanca e di certo non pensa a tutto questo quando il taxi attraversa la Senna e la lascia a casa. È una mansarda che guarda il fiume, piccola quanto basta per lei e i suoi libri, il rock nello stereo e i suoi scritti. L’avrebbe preferita a Mont Martre, dove dormivan Baudelaire e gli artisti, ma le piace perché qui Parigi respira d’antico. Finalmente la doccia le toglie di dosso il viaggio e il sonno che ha perso.  Non è più il suo mondo.
Il primo sole entra dalle tende rimaste aperte e la invita a colazione al bistrò all’angolo da cui esce già il profumo di caffè e croissant.
L’entusiasmo le accelera ogni azione. I jeans, quelli scuri più consumati, e la maglietta aderente scivolano sulle forme sottili e perfette. Solo si intravede questo sotto il pastrano slacciato che si muove ai suoi passi. Carica di sicurezza informale, veloce verso la metro e il suo nuovo lavoro alla Foudre Edizioni. Forse pubblicheranno le sue opere. Perché a Paris non c’è arrivata solo fuggendo una realtà inutile.
L’ascensore si muove lento fino al quinto piano e lascia a Diana il tempo di risistemare la parte, in un francese arrugginito imparato tra Voltaire e i Maledetti. Le si scolpisce un po' di fiducia nel cuore.
Resta solo la gavetta da fare aspettando l’occasione di essere.
Tra bozze, revisioni e gli appunti per il suo breve romanzo Diana resta solo un nome su un elenco, un volto bello e sconosciuto in una folla di colori a macchie.
Ma la metropoli di vetro, burocrati e ipocrisia non ci sarà nella lettera che stasera scriverà per quel lui che ha abbandonato di là delle Alpi.
Solo un battito d’ali di farfalla nei giardini di Versailles.

Marcello Colombo

Farfalle

2 dicembre 2mila

Un movimento fluttuante indeciso tra reale e immaginario che si collegano. Rimangono ancora universi paralleli come ciò che ha in testa e sotto i piedi.

È seduto sulle scale, di fronte a casa. Sono fredde, di marmo chiaro contro il suo  caldo maglione cioccolato.
Nel prato di fronte sono tornati quei piccoli fiori azzurri di cui non ricorda il nome, e quelli dai petali larghi e rosa che piacevano tanto alla nonna. Ha 20 ma della vita ha già preso tutto il male. Troppo male.
Fermo a guardare nel vuoto, s’è infilata davanti ai suoi occhi una farfalla. Non ha i soliti colori, quelli stupidi da cartone animato, piuttosto sono uno scuro fondo puntinato d’oro. Riconosce i tratti che ha dentro. Osserva il suo volo morbido e ondivago; ci vede l’onda corta del mare di mattina, da bambino.
Dura poco, però. E il volo si tronca, la vita della farfalla si ferma nella tela di un ragno. Continua a osservarla dibattersi nella rete e più e più rimanere bloccata in spire mortali.
Tanti giorni e notti, e fiori e nevi son passati e già ritorna. È seduto, ancora, sulle scale fredde di marmo chiaro.
Può una farfalla fuggire dalla tela del ragno?

Marcello Colombo

Il mare d’inverno

23 novembre 2mila

“…quello che mi manca oggi è il mare d’inverno”: mi viene una lacrima mentre ci penso spiando il flusso incessante fuori della mia finestra in questa stanza sigillata. Osservando oltre il muro di vetro che mi divide da chiunque ricordo cosa sia l’odore dell’aria di Milano, quel misto di smog e sudore che assaporerei volentieri. Mi resta poco di queste antiche sensazioni, ché già comincio a dimenticare persino come sia dolce farsi sfiorare la pelle da mani amorevoli.
Io ora sono qui. Un 3x3 dai muri di plastica, aria assolutamente filtrata che profuma di niente, solo coi miei desideri in una prigione che chiude gli altri fuori; secondino un infermiere di cui riconosco solo gli occhi.
Riposo in attesa di tornare ad assaporare il mondo. In realtà non riposo niente: c’è chi mi tortura nel corpo e io mi torturo mente e cuore chiedendo se davvero serva a qualcosa. La risposta ancora manca. Spesso sono arrivato a un bivio qui, nell’inferno dove lavorano gli angeli come recita la pubblicità, ma scegliere l’altra strada sembrava sempre la scelta sbagliata. Ora i contorni cominciano a mutare, non credo più d’aver fatto la cosa giusta. Ora è tardi per cambiare il passato. Ora posso solo decidere se tremare di fronte al mio futuro.
Ho visto negli occhi di mia madre il dolore puro e ho chiesto di diventare cieco, ho ascoltato dottori discutere la mia impossibilità e ho chiesto di esser sordo; mi hanno offerto questa elegante cella finché non mi sarò addormentato e ho deciso di partire.

ABBOZZO DI UN ROMANZO

Nel 1998 Marcello parlò spesso agli amici di un romanzo, che intendeva scrivere: un romanzo sugli angeli. Riteniamo che le pagine seguenti, trovate in uno dei suoi quaderni, ne costituiscano l’abbozzo, la prima idea.

Angeli - 1° parte (INTRO)

PASQUA 98

Ho visto un angelo. Non so come l’ho riconosciuto senza ali di nuvole bianche e quella luce da film hollywoodiano. Non ho neanche capito perché mi abbia cercato, o forse mi ha solo trovato. Non sono certo una pecorella smarrita. Seguo la santa fede della madre Chiesa ‘che me l’hanno insegnata al catechismo.
Quando ero piccolo mi spiegavano che noi, bravi e cattolici, abbiamo la verità perché solo noi abbiamo conosciuto il Dio, quello vero.
E ho sempre detto tutte le preghiere, a tutte le messe a cantare insieme alla nonna  che se le ricordava in latino.
Non so proprio perché sia da me quando c’è tutto un mondo da convertire.
Gli islamici che massacrano un sacco di bambini, e gli ebrei impegnati nella loro guerra santa.
Io sono sempre stato un bravo figliolo come diceva il vecchio parroco.
E l’angelo si avvicina e mi punta l’indice contro. Mi sento innocente ma già condannato ancora prima che parli.
Mi indica e se ne và. Non posso non seguirlo nella folla accalcata di questo mercoledì mattina in metro, come al solito.
Ma già domani comincerà la vacanza per pasqua. Scivola veloce verso la scala mobile nel cono di luce del mezzo sole d’aprile. E io gli sto dietro a fatica scansando dirigenti in tweed armati di ventiquattrore di cuoi, ragazzi dentro troppe taglie di salopette e cuffie a 100 decibel.
Una folla senza nomi, piena di buoni cristiani, attraversata da un angelo ben visibile ma invisibile come chiunque.
Lo seguo con passo curioso quanto incredulo per le vie larghe e i vicoli della città. Sicuro mi conduce verso il quarto piano senz’ascensore ove mi ospita una bassa mansarda da quando è iniziato il semestre. Poi si ferma sulla porta con fare disincantato quasi stanco di aspettare che io lo faccia accomodare.

Angeli - 2° parte (CASA)

PASQUA 98

casa mia non è certo una regia pronta all’arrivo di un angelo.
Una maglia sporca è abbandonata sul linoleum di una delle stanze che costituisce alternativamente la sala ove accolgo ospiti improbabili, come stamattina, o la mia alcova solitaria, come ieri sera.
Non aspetta certo che gli offra l’unica poltrona, modesta e quasi necessariamente scomoda, per abbandonarsi sopra come chi sia arrivato a piedi da un altro pianeta.
Non è proprio il fare i un angelo come quelli dipinti nella chiesa di provincia.
Forse ho sbagliato.
Pur standogli in piedi davanti piantato a gambe larghe non colgo subito i suoi occhi chiusi e le mani accostate, il volto è trasformato in un’espressione a metà tra la commiserazione e il torpore velato da un ghigno malsano, poco divino.
Le sue parole arrivano finalmente come portate da un vento del deserto carico di tempesta.
“È piuttosto chiaro che io sia un angelo, il tuo angelo

ARTICOLI E SAGGI

Nell’autunno del 1998, dopo l’esame di maturità scientifica, Marcello si iscrisse alla Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Torino e, contemporaneamente, avviò una collaborazione giornalistica con La Provincia di Como. Alcuni articoli furono pubblicati xxx; altri rimasero nel cassetto; altri ancora furono pensati per una diversa destinazione e mai terminati. Noi li abbiamo raccolti qui, facendoli seguire da un saggio (su Kubrick, una delle sue passioni!) che Marcello scrisse a quattro mani con l’amico Fabrizio Stoppa e che presentò all’esame di semiotica sostenuto con il professor Caprettini

A scuola di razzismo

CABIATE. Alla scuola media “C. Caldera” quest’anno un’intera classe prima non esiste. Non è però merito del solito crollo demografico incessante, piuttosto a colpire è lo scandaloso comportamento di fronte a due nuovi iscritti di diversi genitori cabiatesi che hanno sentito la necessità di togliere i propri “bambini” dalla scuola per non porli a contatto con queste fonti di violenza e oscenità. I due ragazzi “pericolosi” li chiameremo Marco e Paolo. “Marco è un ragazzo con forti problemi caratteriali” secondo la definizione del prof. Attilio Colombo, docente di lettere della scuola, cui ci siamo rivolti per avere delucidazioni. Ha dimostrato la propria difficoltà ad inserirsi già alle scuole elementari. Il ragazzo proviene infatti da una famiglia definibile “difficile” per i problemi non certo lievi che ha con la legge e risulta fortemente influenzato da questa situazione di disagio che affronta sin dalla tenera età e che ne hanno causato la forte debolezza psicologica. Proprio dal menage familiare al limite della legalità è derivata una fortissima carica aggressiva che Marco sfoga di continuo in maniera piuttosto “diretta” sui coetanei e sugli insegnanti, sempre con la protezione dei genitori. Tutto ciò non può certo giustificare che ben 20 bambini siano stati sparsi per scuole dei paesi circostanti, allontanandosi anche fino a Cantù. Infatti molti hanno ritenuto aggravante o piuttosto inaccettabile, tanto da spingerli quasi a richiedere l’intervento del Provveditore, che oltre a Marco fosse presente un altro elemento “ingombrante”, “un peso per la buona riuscita della classe” si sentiva vociferare poco tempo fa. Infatti per l’anno scolastico 1998/99 è iscritto alla classe prima anche Paolo che purtroppo alcuni anni fa è rimasto coinvolto in un grave incidente stradale e ora, costretto su una sedia a rotelle, necessita di assistenza quasi continua. Certo come riferisce uno dei rappresentanti d’Istituto “ognuno aveva le proprie ragioni” che potrebbero essere riassunte nella constatazione che la scuola garantirebbe minori opportunità per l’apprendimento di quelle equivalenti nei paesi limitrofi.
Nonostante queste affermazioni, sicuramente fondate, la scuola media di Cabiate è stata recentemente dotata di strutture all’avanguardia come l’aula attrezzata per lo studio delle lingue straniere. Oltre a questa strenua difesa che si appella ad una presunta inadeguatezza didattica e strutturale fonti inerne alla scuola riferiscono chiaramente dell’esplicita volontà di alcuni genitori di non porre i figli a contatto con queste realtà spesso complesse e sicuramente impegnative da affrontare. Usando ancora le parole del prof. Colombo “questi ragazzi dovrebbero essere elementi di aggregazione e crescita piuttosto che di dispersione”. Sicuramente il contatto con due esperienze così delicate e singolari avrebbe causato nei bambini stimoli contrastanti e, forse, i genitori si sarebbero dovuti scomodare a rispondere a qualche decina dei complicatissimi Perché che può rivolgere un piccolo di 12 anni. Inoltre lo sforzo di questi genitori, così attenti a preservare i propri figli dal contatto con un mondo troppo vero, potrebbe rivelarsi inutile in quanto queste situazioni sono meno uniche di quel che si pensa. L’attenzione di questi  ai propri figli ha reso vano ogni tentativo del preside e dei docenti di modificare la situazione portando gravi problemi che non si limitano al trasferimento di alcuni insegnanti, ma che potrebbero piuttosto farci arrivare nei prossimi anni alla chiusura dell’istituto.

All’attenzione di Vittorio Colombo

Marcello Colombo

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Venerdì 30 ottobre è avvenuta la premiazione del concorso organizzato dalla Cic, distributrice di “Jurassik Park” in videocassetta, in collaborazione con il Museo di Storia Naturale di Milano proprio in occasione dell’uscita in VHS del film di Spielberg. La giuria composta da un rappresentante della Cic, da due paleontologi del Museo e dalla direttrice di “Dodo”, periodico per ragazzi sull’ambiente, ha premiato tre scuole parimerito con uno dei sistemi multimediali in palio. Delle scuole medie vincitrici ben due arrivano dalla provincia di Como: quella di Arosio Inverigo per un VHS sui dinosauri e la “C. Caldera” di Cabiate per le maschere a riproduzione dei mostri di Spielberg. Queste maschere sono state realizzate artigianalmente dai ragazzi della 1° C ’97/’98 con l’aiuto di due insegnanti e resteranno in mostra nella sezione di paleontologia del Museo per un mese prima di essere riconsegnate ai creatori. Tutta la giuria si è complimentata coi ragazzi oltre che per il grande impegno profuso per l’ottimo livello generale delle realizzazioni. Soprattutto ringraziamenti e complimenti sono arrivati addirittura da una E-mail proprio da Spielberg che ha potuto confrontare i lavori con quelli svolti in contemporanea nelle scuole americane.
Le maschere della 1° C di Cabiate hanno favorevolmente impressionato i paleontologi proprio per l’estrema cura dei particolari negli esemplari presentati. La cerimonia è stata molto breve ma tutti i ragazzi erano entusiasti per il premio e i complimenti del regista Spielberg. Il computer sarà consegnato alla fine di novembre alle scuole e verrà utilizzato per la didattica soprattutto grazie ai software inclusi.

Disponibili foto.

Marcello Colombo

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Venerdì sera le sale del Golf club di Carimate si sono popolate di svariate personalità brianzole riunite per celebrare anche quest’anno l’impegno dell’associazione “Il Mantello” dell’ospedale di Mariano C.se. La manifestazione, già alla terza edizione, ha raccolto fondi per l’attività dell’associazione riunendo questa volta circa trecento persone. Il mantello è stato fondato tre anni fa da un gruppo di scout anziani per favorire l’assistenza ai malati terminali di cancro. Subito riunì diversi medici e infermieri dell’ospedale in un organizzazione no-profit assolutamente all’avanguardia per il servizio offerto. Infatti si sono sempre occupati di malati terminali la cui assistenza, che deve essere chiaramente tempestiva, va assolutamente contro il sistema della Sanità già assolutamente congestionato. Proprio per questo in Mantello attraverso il servizio ospedaliero UCP (unità cure palliative) fornisce assistenza domiciliare a questi malati. Quest’anno l’associazione si è occupata ben di 150 malati rendendo più sopportabili le loro ultime settimane di vita. Per fornire tale assistenza vengono utilizzati sia le offerte dei parenti dei malati che i versamenti di generosi privati e aziende locali che i fondi raccolti proprio in manifestazioni come la cena di venerdì sera. I finanziamenti di quest’anno (circa 60 milioni) saranno poi distribuiti tra alcune borse di studio per alcuni giovani medici e corsi infermieristici di formazione oltre che per l’acquisto delle idonee attrezzature per l’assistenza domiciliare.

Cyberpunk West: appunti sparsi di (blasfema) mitologia

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La casa milanese Shock Studio produce da circa 10 anni opere a fumetti ad altissimo livello tanto per la tecnologia d’avanguardia nel disegno quanto per la ricercatezza delle trame che propone e che hanno permesso ad alcuni lavori di attraversare l’oceano per finire tra le pagine della prestigiosa Dark House Comics.
Il progetto “a cyberpunk western” va ora ben oltre le già alte prospettive dei precedenti lavori e danza appena sull’orlo del blasfemo meritando a ragione la definizione di “marmellata pop” quanto quella di “mitologia frammentaria”.

30 novembre 1900: muore Oscar Wilde.

Con lui NON muore la sua rivoluzione.
Lui, come Baudelaire, assaltò tutti i canoni e i pregiudizi di un’era. Un’era a cui i nostri giorni assomigliano per mollezza e inutilità. I dandy o meglio i DECADENTI come li chiamavano spregiativamente iniziarono una rivolta armati di sprezzante eleganza e insostituibile leggerezza.
Oggi, a 100 anni dall’uscita dal carcere di Reading ove viene imprigionato per oscenità, il cinema celebra il mito del dandismo con la biografia dell’autore del RITRATTO DI DORIAN GRAY.
Ma non solo, perché l’altera portanza di Wilde ritorna anche sulle passerelle di moda. Sfilano scompigliati modelli coperti di cappotti grigio azzurro bordati di pelliccia.
I dandy sono allora una presenza viva che continua al giorno d’oggi?
O la portata della loro ideologia che ha subito nel corso del nostro secolo una trasposizione su grande scala li ha ridotti all’ennesimo inutile stereotipo?
Io credo forse che la cultura contemporanea ci ha spesso schiacciati entro la MASSA e sottoposti alla MODA per essere sempre meglio controllati.
Così anche per l’opera di Wilde che presto si ridusse al dandismo di massa che ne schiacciò l’essenza e quell’imprevedibilità beffarda che era sua caratteristica.
In Wilde e Baudelaire, due figure simbolo di quel movimento che imperversò a inizio secolo esser DANDY era una critica alla nascente spersonalizzazione nella massa che ancora oggi funesta la società.
E infatti la società che considera tutto e tutti come MERCE li ha distrutti.
Oggi non avrebbe senso passeggiare con un garofano verde appuntato al petto. Dopo poco sarebbe sul petto di tutti.
Allora conserviamo però la lezione del dandismo. È necessario criticare la società tramite agilità e trasgressione.
Se la nostra civiltà è quella del commento cavilloso e pedante allora fuori da ogni schema è meglio ribattere con semplici aneddoti.
Il sublime Wilde quanto il maledetto Baudelaire spesero la proprio vita a combattere quella (ma anche questa) società di MASSE indifferenziate cercando di distinguersi, levarsi sopra ognuno.
Oggi tanti si riconoscono nel dandy inglese: dapprima i gay di cui è stendardo; poi le donne che nelle sue opere furono sempre geniali e spiritose, molto meglio degli uomini; infine noi perché Wilde celebrò la bellezza. Di chi altri è la bellezza

Una fiaba macabra

Archetipi e strutture cristallizzate nella fiaba, da qualsiasi luogo e tempo essa provenga, furono perfettamente delineati nei lavori di Propp e di Nikiforov1. Proprio tali lavori mostrano “regolarità compositive e formali” (come le definiscono gli stessi autori) nella fiaba che si rivelano elementi di base per l’analisi di un’opera geniale quanto complessa come indiscutibilmente è lo “Shining” di Stanley Kubrick.
Questo indiscusso capolavoro cinematografico non è però ristretto semplicemente entro il confine favolistico ma si spinge a lavorare  sulle potenzialità della psiche portando alla luce un livello epico e mitico sempre colto attraverso una lente deformante. Così il regista gioca in uno stretto spazio ove convergono magie ignote e insane allucinazioni in una mescola che rende impossibile distinguere e decidere il confine tra psicologia e paranormale. Quindi la pellicola si dipana avvicinandosi ogni istante a un certo angolo visuale: la linearità della fiaba e il labirinto epico sono cardini sul piano formale-generativo, lo shining e il buio delle profondità dell’anima ne indirizzano i contenuti.
Proprio dove la fiaba bacia le scene ci addentriamo nei recessi della nostra mente che più generano terrore, Kubrick infatti cerca di spingersi ben oltre il limite dell’opera ispiratrice creata da Stephen King2. Se il racconto dell’ultimo maestro dell’horror è stato proprio semplicemente una storia nel solco dell’orrore all’americana, cioè basata su fatti di sangue e mostri (le sculture vegetali del giardino che si animano nel finale), e rimane solo un racconto non troppo diverso da molti altri che si vedono raccontare attorno al fuoco di un campeggio per spaventare bambini grassocci in qualche noiosa pellicola yankee. Kubrick invece che ha amato plasmare grandi opere su storie create da altri3 ne modifica radicalmente la prospettiva suscitando uno spavento che soffoca un urlo più che l’orrore misto a disgusto di fiumi di sangue e corpi putrefatti.
Con l’aiuto di Dane Johnson4, cosceneggiatrice del film, riuscì a far sì che chiunque veda il film abbia una paura tale da coprirsi il viso con le mani, spiando tra le dita, ma che a nessuno venga voglia di andarsene schifato. Soprattutto con questo intento il regista strazia, corrompe e inverte (quando serve) i canoni fiabeschi. E allora sono le figure codificate della fiaba che ritornano con potenza e limpidezza e sono sia in Jack Padre-Orco, sia nel cuoco Dick come aiutante magico che condivide lo shining e insegna a Danny a capirlo……
Con ordine la prima figura –ma anche principale- figura dell’opera è il piccolo Danny che come in ogni fiaba che si rispetti è un bambino a cui è imposto un divieto (non entrare nella stanza 237) che non riesce a rispettare. Ci sono alcune variazioni da segnalare sul modello base; infatti se di solito è la madre il punto guida –almeno iniziale- delle azioni del bambino protagonista qui viene a mancare (se si esclude la normale educazione) per essere sostituita dai consigli di Dick Halloran, il cuoco dell’hotel. Da notare ancora di più risulta però la capacità di conservare un’invariante ben più profonda della fiaba come il passaggio delle conoscenze: in questo caso specifico il portatore della saggezza è il cuoco che condivide con Danny la conoscenza/oggetto magico composta della luccicanza ( lo “shining”) e perciò non può essere che lui la figura guida all’interno dell’intreccio. Dick diviene un insegnante per le potenzialità del potere “che fa vedere le cose cattive”5 e tra i suoi compiti vi è quello di porre i divieti. La madre di Danny, Wendy è l’altro aiutante poiché è lei che salva entrambi dalla furia di Jack attraverso la fuga. La fuga finale è una doppia sequenza incredibile: si alternano le immagini di Wendy che corre come pazza nei corridoi dell’Overlook hotel riempiti di allucinazioni e la fuga di Danny nel labirinto di siepi. Le immagini tutte girate grazie alla forza della steadycam (realizzata proprio con l’aiuto di Kubrick) trascinano con sé lo spettatore.
Tutta l’opera kubrickiana coinvolge in parte una sorta di studio sull’utilizzo umano dei simboli derivante dalla concezione che proprio tale capacità di astrarre adottando un codice simbolico
–di qualsivoglia linguaggio si voglia parlare- distingua l’essere umano quale forma di vita superiore. Esempio ne è l’opera forse più imponente di Kubrick: in una scena di “2001: odissea nello spazio”, il supercomputer HAL 9000 gioca una partita a scacchi con uno degli astronauti addetti alla manutenzione dell’astronave.
HAL vince la partita ma dichiara lo “scacco matto in tre mosse”: questo comportamento è prettamente umano, nessuna macchina per quanto evoluta dovrebbe esserne in grado –nemmeno DeepBlue che era creato appositamente per gli scacchi-. La macchina diviene umana quando prende coscienza della potenza del concetto di “simbolo” e diviene capace di usarlo (e gli scacchi sono elementi profondamente simbolici, sui quali in altra sede si sono già spese moltissime parole).
Riportando la nostra attenzione su “Shining”, possiamo notare come l’uso dei simboli sia legato a doppio filo a uno dei temi fondamentali del film: il cervello umano. “Shining” è un film psicanalitico dove i lati più oscuri dell’umano pensare sono eviscerati dall’autore tramite l’uso preciso della simbologia: l’Overlook hotel ne è un lampante esempio.
Una delle scene più angoscianti del film ci mostra il triciclo del piccolo Danny sfrecciare fra i corridoi al neon: la steadycam all’inseguimento incalzante del bimbo sembra guidare lo spettatore tra le sinapsi del nostro cervello fin quasi a scavarne simbolicamente i recessi inconsci. Il tortuoso dedalo di corridoi nei quali si muove Danny sembra prendere vita al suo passaggio, inghiottendo lui quanto chi lo segue dallo schermo. L’Overlook riproduce con forza immense circonvoluzioni cerebrali.
A questa idea è strettamente legato anche un altro elemento del film estremamente significativo dal punto di vista simbolico: il labirinto (che era assente nel romanzo e quindi risulta totalmente sviluppato dagli sceneggiatori). La straziante scena finale, che è un po' il confronto coll’antagonista di ogni fiaba, i labirinti dispiegano assolutamente “l’ambientazione psicologica” dell’opera: i personaggi si muovono parlano e agiscono all’interno di un unico sistema, di quel super cervello quasi magico che è divenuto l’Overlook in grado di fare proprie e fisiche le proiezioni degli inconsci dei protagonisti.
Danny vede le sue paure più intime farsi reali più di un’allucinazione grazie alla luccicanza; Wendy assiste impotente al disgregamento della propria famiglia; e Jack si ritrova a ripetere le folli gesta del suo predecessore, accecato dall’isolamento volontario, succube delle forze misteriose che governano l’Overlook Hotel e che lo assimilano nella conclusione (Jack muore congelato nel giardino di siepi ma appare anche nelle vecchie foto dell’hotel). Ennesima prova della torbida formazione di una Grande Psiche va ricercata in quel modellino di labirinto nel salone dell’albergo: a Jack basta guardarlo per entrare in contatto con la moglie e il figlioletto. Il labirinto, come elemento rappresentativo della fisicità del cervello ma anche –e forse soprattutto- come simbolo dell’impossibile comprensione della totalità di noi stessi, moderni minotauri in nel nostro dedalo neurale senza uscita.
E Jack, condannato al ripetersi della tragedia nel tempo, è al contempo l’antagonista catalizzato delle fiabe e la figura che più sfugge ad ogni categorizzazione. “Cara, sono tornato!!”: urla alla mogliettina, imita il Lupo Cattivo sfondando a colpi d’ascia la stanza dove si sono rifugiati moglie e figlio. Questo sembra chiaramente la figura caotica6 del racconto, ma poiché l’analogia con la fiaba risulta pressoché solo dal punto di vista formale l’analisi di Jack scava molto più nel profondo.
Jack è uno scrittore sconvolto dalla sua incapacità di scrivere che si rifugia lontano dal mondo alla ricerca di nuova ispirazione; proprio l’isolamento lo porta alla pazzia. Questo è la chiave per capire il reale protagonista del racconto: Jack Torrance è l’unico personaggio “mobile” cioè in grado di modificarsi da ogni punto di vista, e forse ancor di più è “umano”. Come tutti i protagonisti di Kubrick è pazzo perché diverso cioè perché non segue tutti gli altri nell’essere eterne maschere di una forma. E come HAL (2001: Odissea nello spazio), come Alex (Arancia Meccanica), come il Dr. Strangelove (Dottor Stranamore), come Joker (Full Metal Jacket). Jack è insano e perciò umano quasi fossimo in un romanzo pirandelliano.

La dicotomia reale-immaginario e il quadrato semiotico

Quanto di vero e quanto immaginario vivono i protagonisti del film?
“Shining” può essere considerato un film sul sogno?
La dicotomia tra sogno e realtà pervade tutto il film; la violenza di uno scatenato Jack è più che reale, ma ad essa vanno associati momenti come il drink servito dal diavolo7 nella Gold room o l’incontro con la coscienza nella figura di Mr. Grady che ci riportano in una dimensione più che onirica. Questo rimbalzare tra realtà e fantasia appare in forma chiara nella sintesi del quadrato semiotico greimasiano:
SOGNO ←   → REALTÀ
↑              ↑
NON-REALTÀ   NON-SOGNO
Un’analisi del senso al livello profondo mostra come la Luccicanza altro non sia se non il tramite fra sogno e reale, fra realtà e inconscio. Ne è vivente esempio il personaggio di Dick Hallorann, il cuoco dell’Overlook che col lo stesso dono di Danny ne diviene il suo doppio all’esterno dell’incubo dell’albergo. Hallorann allora nel modello attanziale-mitico di Greimas si svela ancor più a fianco di Danny in contrapposizione alla coppia Jack – Mr. Grady.

La famiglia Torrance

Tre sono i punti di vista tramite i quali si può prendere in considerazione “Shining” e ognuno corrisponde all’inconscio di un membro della famiglia e ognuno è una maniera di leggere le righe della sceneggiatura.
Danny e il paranormale: con gli occhi del bambino il film è paranormale. La luccicanza è la chiave che apre la porta di una dimensione onirico-stregata con sede nell’Overlook hotel. Kubrick stesso, tuttavia, spiega come il paranormale presente in “Shining” è una realtà da spiegare principalmente con la psicologia: dunque un paranormale mediato, capace di dare un tono ancor più freudiano alla pellicola.
Jack e la parabola dell’isolamento: il punto di vista della figura paterna è di certo il più complesso –anche perché preponderante-. Egli è antagonista e protagonista insieme, soprattutto per la sua capacità di affrontare le “prove” (l’incontro nella 237, lo scontro con Dick) sempre assistito da veri e propri aiutanti ( Mr. Grady e l’enigma del barman Lloyd – Satana), ma anche un eroe tutto novecentesco che fallisce la sua missione. Risulta però oltremodo banale ridurre il film “solo” ad una lotta tra Bene e Male nelle due figure principali. L’isolamento forzato al quale Jack si sottopone per terminare il romanzo lo pone di fronte ad un antagonista imbattibile: il proprio Es, reso una creatura vivente da forze misticheggianti a guardia dell’hotel. Ciò rende Jack protagonista nella sua lunga e lancinante crisi d’identità.
Wendy e la distruzione del sistema-famiglia: analizzando il punto di vista di Wendy risulta evidente che “Shining” è anche un film sul rapporto famigliare e sulle contraddizioni che esso genera. Wendy vede, si è detto, disgregarsi la propria famiglia progressivamente la propria famiglia sotto i colpi della follia. Kubrick va oltre: l’attenzione su sguardi e gesti già all’inizio del film mostra come il regista voglia “quadrare il cerchio” con una inquietante proposta: forse la forza dell’Overlook e dell’isolamento ha solo rivelato ciò che era prima solo latente?

Chi ha paura della luce?

Con questi elementi si affronta uno dei punti principali della struttura che è rappresentato dall’oggetto magico-sapienziale o meglio in questo caso dalla vera e propria capacità magica, poiché un vero e proprio oggetto di magia non esiste. La luccicanza è la capacità di vedere oltre il reale nello spazio quanto nel tempo. Potremmo considerarla la possibilità di superare il proprio limite umano se volessimo avvicinarci a Lotman. E concentrando l’attenzione su questo punto ricaviamo una considerazione basilare per la comprensione del film: il rovesciamento del canone che prevede il parallelismo luce – Bene, oscurità – Male in eterna lotta.
Infatti, sembra una cosa ovvia, è radicata nell’uomo la paura del buio. Il buio simbolo dell’ignoto e rappresentazione di ciò che non è possibile o raggiungibile ( si pensi allo spazio remoto o alla morte). Spesso è divenuto emanazione del Male in certa cultura popolare: streghe, vampiri, werewolves e zombie sono creature nate dalla notte.
Il buio investe –o è più corretto ha sempre investito- una  sfera emozionale ampia suscitando paura e curiosità, strane aspettative che provengono da ciò che non si riesce a definire troppo bene. Nella parte in ombra del bosco c’è sempre la tana del Lupo Cattivo o la casa glassata della Strega, il Drago abito di solito in un antro profondo, in mitologia greca gli dei più pericolosi e irrazionali sono Ade (gli inferi) e Poseidone (le profondità marine), dagli spazi siderali arrivano sempre alieni malvagi, la Morte apocalittica non è che un manto nero che nasconde un corpo di buio assoluto. Oltre la coincidenza, più che una scelta premeditata da qualche autore, la “paura del buio è certamente umana che a raccontare sia stato un omero, un profeta giudeo, un bardo della corte di Carlo Magno o un nonno degli anni ’90. Naturale quindi tranne forse per un’indagine profonda come quella kubrickiana o persino kingiana.
Infatti si arriva a definire un codice di valori che si basa sul postulato che ciò  si è in grado di vedere esista fisicamente e che ciò che esiste sia potenzialmente dannoso. Di qui un nuovo –ma risulterà poi non troppo- parallelismo oppositivo: luce – rivelazione del Male in contrasto con buio – rifugio. Questa formula non è più innovativa dei nostri istinti. La luce è alleato ancestrale dell’uomo ancor prima della scoperta del fuoco perché necessaria per la sopravvivenza; e questo è codificato nelle paure infantili quanto nella durevolezza millenaria delle religioni. Proprio su questa dicotomia si sviluppano quasi tutti i movimenti del racconto, diversi e sottili sono gli elementi che sono distribuiti nella pellicola per rendere più pregnante l’idea di fondo. Ciò che non si può vedere non può fare alcun male… semplicemente perché non esiste.
Se ci aspettassimo scene di notte al buio come in tanti altri film horror resteremmo ben presto delusi perché non ne esistono:
il film è pressoché girato di giorno o in interni ben illuminati. L’unico notturno è la fuga di Danny nel labirinto illuminato da infinite serie di lampioni che si riflettono sulla neve. Un esempio forse unico, per quanto è esplicito, è lo scontro tra Jack e Dick Hallorann sotto l’unico lampadario acceso del salone. E Dick muore proprio lì sotto con un colpo d’ascia nel petto (in pratica l’unico sangue del film). Ma si potrebbe continuare con la Gold (e la prerogativa dell’oro è proprio la lucentezza) room che si illumina a festa quando Jack deve raggiungere la sua pazzia. O ancora le infinite curve dei corridoi sempre in pieni luce grazie a interminabili successioni di neon. Un girovagare che conduce alla pazzia. Ma soprattutto lo shining in sé che se è ciò che mostra il Male sembra sempre più anche ciò che lo scatena. E il buio è sempre il rifugio di Danny nella fuga dal padre: uno scaffale della grande cucina i metallo o l’unico angolo oscuro del labirinto.
Alla fine del film risulta facile avere paura della luce.

Il mattino ha l’oro in bocca

Una frase di carattere popolareggiante che fu scelta dallo stesso Kubrick per tradurre: “All work and no play makes Jack a dull boy”. Entrambe le frasi trasmettono nella loro ripetizione ossessiva la pazzia cavalcante di Jack. Il suo romanzo composto da pagine su pagine con una sola frase raccolta e variamente battuta a macchina. Questo assoluto simbolo d’insania si svela tra le mani della moglie con la camera che si sposta sul viso di Wendy che trasfigura in una maschera d’inaspettato terrore. Quasi una rivelazione che squarcia ogni sua sensazione di tranquilla stabilità.
La forza di questa scena si conserva anche al di là della traduzione di ogni pagina. Ma il regista vuole andare oltre alla ricerca della realizzazione di una sfumatura singolare in ogni lingua e studia perciò ogni traduzione con ogni direttore del doppiaggio per ottenere la resa migliore. E proprio attraverso questo puntiglio si arriva alla filastrocca allucinata allucinante: “…il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha
l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il…”.
La versione italiana mostra inoltre un’interessante chiave di volta: la bocca. In un certo modo “Shining” è un film paranormale, psicoanalitico, sulla pazzia, sul crollo della famiglia ed è anche un film che si può leggere attraverso la bocca e la forza di cui dispone (freudianamente è un film sulla “fase orale”).
Solo l’attenzione maniacale che viene offerta ai primi piani è esemplare. Scene provate decine, centinaia di volte fino a generare una reale disperazione negli attori per avere una reale paura. Il regista arriva a rendere la paura fisica trascrivendola su pagina dattiloscritta.
Ma la bocca è un vero e proprio leitmotiv dell’opera. Dalle prime scene senza smettere praticamente mai. Soprattutto Tony, “il bambino che sta nella mia bocca”, che è il tramite della luccicanza per Danny e attraverso cui, direbbe uno psicologo dell’infanzia, esprime i suoi desideri e le sue paure. Tony è l’oggetto di magia e l’aiutante magico, l’amico immaginario che in tanti hanno avuto da bambini, quasi un demone perché è anche attraverso di lui che le visioni si sviluppano nella realtà. Per Danny Tony è l’amico necessario per superare le prove, un altro tramite per la conoscenza. In ordine nell’intreccio la bocca torna di continuo: già prima di arrivare all’Overlook hotel abbiamo un avvertimento che sembra un invito a non proseguire, non dissimile al monito della mamma di Cappuccetto Rosso ad evitare la parte buia del bosco. Sulle montagne intorno all’Overlook una spedizione si è smarrita ed è stata costretta al cannibalismo per sopravvivere. Ma continua di questo passo e con ancora più forza l’insistenza sulla bocca all’interno dell’albergo con la descrizione di cucine, dispense e celle frigorifere dove si consumeranno molte delle scene cruciali, dove verrà ad un certo punto imprigionato Jack.
Per tutta la pellicola siamo guidati dalla bocca e dalla sua potenza che sta anche nella parola attraverso ogni scena. E in definitiva la forza più grande che si incontra è proprio la parola, in un film dell’orrore dove di sangue ce n’è pochissimo sono parole ed
espressioni a guidare i nostri sentimenti. E allora il Diavolo mostra tutta la sua potenza nelle parole di Lloyd, e poi Mr. Grady convince Jack con abili melliflue parole a distruggere la propria famiglia. Ancora di più le parole delle piccole gemelle (morte) che canticchiano a Danny: “Vieni a giocare con noi….per sempre, per sempre…”. E una menzione non può non andare all’immagine più spaventosa: il volto di Jack attraverso la porta sfondata con un incredibile sorriso distorto dalla follia.

Note e bibliografia

1: l’opera di Nikiforov di riferimento è Per uno studio morfologico della fiaba popolare, mentre per Propp ci si è guardato a Morfologia della fiaba
2: King pubblica in Italia per Sperling & Kupfer e nella collana “Pandora” sono presenti la maggior parte delle sue opere
3: ad esclusione delle sue prime pellicole di cui fu anche soggettista S. Kubrick lavorò sempre su opere più o meno famose di altri sempre offrendone una particolare e innovativa prospettiva
4: Dane Johnson è una scrittrice inglese docente di letteratura gotica che fu scelta soprattutto per il suo libro Le ombre sanno
5: si cita dalla traduzione italiana di “Shining” oggi disponibile nella collana “L’Unità multimedia” insieme a tutte le opere maggiori del regista newyorchese
6: si utilizza la definizione di caotico derivata da un certo uso della letteratura fantasy per malvagio e senza regole
7: secondo alcuni critici cinematografici la figura del barman Lloyd sarebbe una manifestazione infernale. Questa particolare lettura è stata in parte avvallata dallo stesso regista in un’intervista

N.B. : sono stati basilari per la realizzazione sia i testi del corso di semiotica (Segni, testi, comunicazione; Ordine e disordine entrambi realizzati da Giampaolo Caprettini) sia la biografia del regista (Stanley Kubrick, l’uomo dietro la leggenda curata da Vincent LoBrutto ). Va segnalato che la realizzazione è stata frutto del lavoro inscindibile di entrambi certamente necessari per aprirsi a più visioni dell’opera.